TUTTE LE ATTIVITÀ

CHIAZZILE – INIZIATIVE VARIE NEL 900

Il “chiazzile” ( chiazzìlë ) era, anticamente, un luogo di aggregazione (come una moderna piazza) quando il nucleo pulsante del paese gravitava intorno al castello. Era anche uno spazio intorno al quale nacquero le prime attività di commercio. Nel secolo scorso con il termine “chiazzile” ci si riferiva allo slargo della Cappella Mater Domini, costruita nel 1779 in Via Cesare Beccaria e ristrutturata nel 1997 e di proprietà della fam.Cozzetto. Il “chiazzile” era abitato da famiglie dedite prevalentemente alle attività agricole, ma tante furono le piccole botteghe industriali che sorsero in prossimità del centro storico, come quella della lavorazione della lana, “le filande”. Nei primi anni del 900 sorse a Rotonda, per iniziativa di un tal Vincenzo Cersosimo, proveniente da Mormanno, un’industria alimentare. Anticamente non vi erano fabbriche specializzate in materia per poter produrre grandi quantitativi di pasta, anche perché i macchinari occorrenti erano inesistenti; pertanto ogni massaia doveva preparare nella propria casa le varie specialità. Il Cersosimo, con grande senso innovatore, trasferitosi in paese, acquistò un macchinario a cilindri azionato da una ruota che girava con la forza delle braccia. Il piccolo pastificio risultò di grande utilità, fornendo pasta di diversi tipi in quantità più che sufficienti al fabbisogno locale e non solo.
Altre piccole industrie furono quelle dei fiammiferi e del sapone a opera del Sig. Iorio Onofrio che si servì di maestranze provenienti da Napoli. Entrambi i prodotti presto divennero molto apprezzati, per la qualità e la modicità del prezzo, non solo a Rotonda ma anche nei paesi vicini ; così ben presto le importazioni diminuirono sensibilmente dalla capitale partenopea. La durata di queste attività ebbe però breve durata(circa una decina di anni), in quanto la propaganda dei grossisti napoletani ebbe il sopravvento. Lo Iorio, così, fu costretto a chiudere battenti. Verso la metà del XIX secolo, a Rotonda era efficiente anche una fabbrica di pettini, gestita da tal Guzzo Gaetano e successivamente da suo figlio Antonio. I pettini venivano realizzati in legno di “bosso”, materiale compatto e durissimo in vari colori.
Fiorente fu anche la fabbricazione delle candele ad opera dei Sigg. Beniamino Tancredi e Francesco Bloise, che realizzarono dei laboratori utilizzando materie prime di ottima qualità. Alcuni tarantini si impegnarono nella realizzazione delle tegole: l’attività era così
fiorente che il numero degli addetti aumentò e a tale produzione si affiancò quella della fornace dei mattoni nelle contrade Fiumara e Fratta. Fra tutte le attività finora trattate, bisogna annoverare anche l’era dei mulini ad acqua. Ve ne erano ben 12 nella prima metà del 900 , soprattutto in campagna, proprio perché a differenza di oggi, la farina non veniva da fuori. L’avvento dell’elettricità segnò la fine dei mulini ad acqua e la nascita di quelli elettrici, uno in paese e uno in contrada Piano Incoronata.
Nell’anno 1880 venne impiantato, ad iniziativa del Sig. Miraglia Ferdinando, una vera filanda con macchinari acquistati ad un’asta pubblica a Salerno. Poiché il Miraglia era poco pratico del settore, cedette l’attività al Sig. Paonessa Domenico che, da bravo meccanico, diede una nuova sistemazione alle apparecchiature , assicurando una migliore funzionalità alla lavorazione della lana. In più chiamò da Lagonegro il Sig. Francesco Filizzola, che era abile ed esperto del setto e. Da ricordare il Cav. Antonio De Marco, laurea “honoris causa” in Farmacia e decorato della Croce al Merito del Lavoro per la speciale preparazione dell’ “ELIXIR DI CHINA SAVOIA” dedicato alle L.L. M.M. i Reali d’Italia e indicato come ricostituente, fortificante, digestivo e antimalarico. La sua efficacia fu attestata dalle prime celebrità mediche in Italia e dalla Regia Università di Napoli. Nel 1911 fu istituito a Rotonda il primo asilo, fondato dalla Congregazione di Carità. Era gestito da religiose, non aveva refezione e, purtroppo, il materiale didattico era insufficiente. Il metodo educativo era quello froebelliano. Fonti scritte: “Nerulum Rotonda” , Umberto D’Aquino, Enzo Fittipaldi, Saverio Lauria-ed.salentina,Galatina,Lecce,1976 Fonti orali: Tommaso Paonessa, Enzo Fittipaldi
IL DIALETTO NOSTRANO

Ci sembra doveroso soffermarci sulla lingua dialettale locale. Il dialetto spesso riesce ad esprimere sentimenti, passioni, gioie e dolori meglio della lingua nazionale e ciò proprio per la sua spontaneità e originalità. Il nostro linguaggio risente molto dell’influsso del dialetto calabrese e napoletano. Molte parole dialettali hanno la loro origine dal greco,dall’arabo, dallo spagnolo, dal latino e dal francese. Così dal latino derivano:
“musca” (mosca), “vetto” (bastone), “petra” (pietra), “sartania” ( padella), “luta” (sporcizia),”crai” (domani), “pirramare” (bastonare), “pinnini” (andare verso giù), “ciraso” (ciliegia). Dal greco:
“arrasare” (allontanare), “cofano” (cesto di vimini), “catoio” (magazzino), “grattugghiare” (solleticare), “chiatto” (persona grossa), “grasta” (coccio di tegola), “

‘mbruscinare” (sporcarsi per terra rotolando), ” ‘ngignare” (incominciare), “paracieddro” (piccolo abitato), “chiancato” (soffitta), “scuitato” (tranquillo). Dal francese:
“simmana” (settimana), “buffetta” (tavola), “pulitu” (grazioso). QUALCHE PROVERBIO NOSTRANO
– i guai da pignata ì sapa à cucchiara,
– à vutta china, à mugghiera mbriàca,
– fà màrca e mataléna,
– cu nun s’ fa i guai da casa ‘ssuia va truvanno i guai cuà lanterna,
– a casa di pizzenti nun ci mancanu stozzi,
– l’ommu valente fa a manopinnente.
CURIOSITA’ STORICHE DEI PRIMI DECENNI DEL 1800
Intorno alla metà dell’Ottocento esistevano a Rotonda ben quattro farmacie, corredate degli opportuni medicinali e tre medici curanti. Vi erano ben 14 mulini ( divennero 12 nel sec. successivo), 2 gualchiere e 5 frantoi. Tre erano le fiere nel corso dell’anno:
+ il 13 giugno (S. Antonio),
+ dal 12 al 15 agosto,
+ il giorno della Pentecoste.
La legge del 6 aprile 1840 sul sistema metrico decimale era a Rotonda, come in molti altri luoghi, inosservata. L’olio si misurava a “quartolle” ( ogni quartolla era di once 11 e un oncia era g. 28,3495); tre once formavano il “rotolo”. Per la misura dei panni e delle tele si adoperava il “braccio” corrispondente a palmi due.

IL FOLCLORE
8 Dicembre

Una nota di risalto è la ricorrenza dell’otto dicembre detta “parciavùtta”. Si spillano le botti e si prova il vino nuovo nei “vuttari” (cantine) tra amici e con leccornie locali.
24 Dicembre Il Santo Natale, la più grande Festa religiosa della Cristianità, per i Rotondesi ha sempre rappresentato momenti di unità familiare e l’antica tradizione del ceppo natalizio ne è la dimostrazione. Come già accennato, le famiglie attendono la notte del 24 dicembre, in allegra compagnia, attorno ad un grosso ceppo acceso chiamato “zippone”. La campana della Chiesa Madre annuncia l’imminente funzione religiosa allietata da una nota di folclore con i caratteristici “sòni” (zampogne) ad opera di giovani locali. Per le Festività si preparano tuttora “grispeddre” (fritti di pasta lievitata), “rosecatarre” ( Chiacchiere), “cicirata” (simili agli struffoli napoletani), “panzarotti” ( dolce ripieno di marmellata o di crema di castagna), “giurgiul ia” (un prodotto tipico simile al torrone fatto con miele, agrumi e semi di sesamo) 31 Dicembre La chiusura del vecchio anno, fino a qualche decennio fa, veniva salutata dal popolo rotondese mediante spari di fucile e lanci di vecchi oggetti inservibili. Le strade al mattino erano piene di cocci di ogni genere. Fonte : Libro Rotonda Nerulum (Umberto D’Aquino, Enzo Fittipaldi, Saverio Lauria) Carnevale – La sagra delle polpette Nel mese di febbraio,l’aria frizzante che sa di neve introduce l’allegria del Carnevale. Negli anni 40/50 del secolo scorso il primo giovedì di Carnevale si inaugurava con le prime polpette profumate di prezzemolo,aglio e formaggio pecorino (quest’ultimo ingrediente presso le famiglie più agiate, ma non era di casa per i poveri). I peperoni ripieni e le polpette di patate erano l’altro pseudo – lusso dei bisognosi. “Carnulivaru je’ di li cuntenti:
goi maccaruni e craj fogghie…”(maccheronico)
Carnu̥lëvàru̥ iè dë lë cu̥ndèndë,
gòië maccarùnë e cràië fògghië
(ADR,Alfabeto Dialetto Rotondese)

Le invitanti polpette morbide,rosee di pomodoro,rotonde od ovali, facevano bella mostra di sé in una grande teglia al centro della tavola nelle serate dei 4 “giovedì”.Il più importante è l’ultimo , denominato il “giovedì grasso”. Negli anni ’40 lo era ancora di più,perché, con la tavola ancora imbandita, si aspettava che arrivassero i mascarati (mašcaràtë). Appena si sentiva bussare al portone, si spostavano il tavolo e le sedie, si faceva spazio nelle grandi cucine con la legna ad ardere sotto la grande cappa(camino) perché le maschere potessero esibirsi al centro. Dalle scale saliva il suono del cupi-cupi, antico strumento musicale, artigianale fatto con un vecchio scatolo di ferro coperto all’imbocco dalla vescica del maiale,tesa e legata fortemente con una cordicella intorno all’orlo superiore, con in mezzo un bastoncino di saggina da sfregare con la mano bagnata. Praticamente un rudimentale strumento a mo’ di tamburo , che emetteva un suono cupo e tremolante che si perdeva nel silenzio della notte. Finalmente entravano le maschere nella grande cucina, con il viso coperto da fazzoletti, vestite di stracci o di vecchi panni, oppure con abiti da sposa ingialliti dal tempo o con vestiti da uomo ormai passati di moda, con gobbe e finte pance posticce. I mašcaràtë entravano con voci stonate cantando in dialetto così :

Carnu̥lʉvàrü
Nda stu̥ palàzzu̥ nun c(e̥)_hàgghiu̥ stàtu̥ ancòra
mó chë cë t̥r̃asu̥ cë t̥r̃òvu̥ a lùna e u sòlë
Mm_àsë mmëtàtü a ccàrnë e maccarúnë
përciò salùtu̥ a vvóië carë Sëgnùrë
Hàgghiju̥ sapùtu̥ chë hàie accìsu̥ u pórcu̥
nun më_nnë fa tu̥rnà cu̥ lu̥ mùssu̥ tòrtu̥
iè nu̥n_nnë vògghiu̥ tàndu̥ picchë-picchë
Vògghiu̥ a càpu̥ cu̥ tuttë lë rìcchjë

Dopo il battimani finale ai cantanti improvvisati, si cercava di indovinare chi fossero le persone mascherate: giovani o anziani? Uomini o donne? Sorpresa e scoperta esilarante: non si indovinava quasi mai! E così tutti a ridere, cantare, brindare con i bicchieri colmi di vino. Alla fine la compagnia mascherata salutava rumorosamente e spariva nel buio per continuare l’incanto di una serata straordinaria e per bussare alle altre porte dei vicoli rotondesi. Il paese viveva il Carnevale in semplicità ed allegria : era un dolcissimo arnevale,il nostro,fatto di semplici mangiate e di bevute, di poveri panni e di poveri canti, ma soprattutto di amicizie sincere e sinceri legami parentali. Una festa carnascialesca intrisa di allegria casereccia, goduta accanto al fuoco e poi sciorinata per i vicoli bui , di casa in casa, dove tutti insieme si sentivano una grande famiglia.

LA FARSA
La farsa del “vaso da notte” di Carnevale.
Nel secolo scorso a Carnevale la farsa era una prassi e quella classica era la farsa del vaso da notte. In quegli anni 40/60 il vaso da notte ricopriva in casa un ruolo primario poiché sostituiva l’attuale water. Ce n’erano di piccoli, di grandi, di creta, di smalto,di ceramica, semplici o eleganti a seconda del ceto sociale ed economico delle famiglie rotondesi. All’epoca il bagno non esisteva in casa, se c’era, raramente ,si trovava in qualche sgabuzzino o nelle cantine, formato da un buco nero coperto da un pesante coperchio di legno, perché il cattivo odore non giungesse fino alle stanze superiori. Le famiglie più povere andavano a fare i bisogni nella stalla o nell’orto dietro casa. La farsa ,dunque, chiudeva la serata di carnevale con il trionfo del vaso da notte. Un uomo , nei panni da contadino, tirava per la cavezza il suo asinello ( rappresentato da un uomo arponi) , coperto e bardato di un grande mantello nero, la famosa cappa; giunto al centro della cucina incitava il suo asino a farsi avanti con il caratteristico “ah,ah,ah!!!” ma l’animale si impuntava, recalcitrava e dava a stento qualche passo. Il padrone lo tirava con forza, lo frustava, lo spingeva a calci ,ma l’asino non ne voleva sapere finché il padrone tirava forte la cavezza per smuoverlo. La cavezza,allora, seguita da un raglio, gli restava fra le mani con appeso un vaso da notte!!! E giù risate, brindisi, suono del cupi-cupi. Oggi tale strumento va scomparendo ed è sempre meno usato, ma anticamente il suo suono rallegrava sempre le serate durante questa ricorrenza. Negli anni a seguire al centro della sfilata vi era il “carnevalone”, una figura goffa che beveva il vino offerto. Oggi a Rotonda c’è un carnevale più variopinto e partecipato. Infatti, grazie alle associazioni presenti sul territorio, questa tradizione ha ripreso vita seppur con connotati differenti. Vengono allestiti piccoli carri allegorici e tutto il paese partecipa, di anno in anno, sempre più numeroso sfilando per le vie del paese e in piazza vengono distribuite le tradizionali chiacchiere e “ì purpette ì carnulivaro”, realizzate dai cuochi locali con atate, salame, uova, pepe, prezzemolo e mollica di pane. Primo giorno di Quaresima Nel passato, dopo Carnevale, tornava il silenzio per le strade del borgo; riprendeva il “lavoro usato”. Nei vicoli oscillava in alto, fra un tetto e l’altro, “Quaraisima Scianghitorta”, una donna-pupazzo ,ossuta,magra,curva nel suo vestito nero,con il capo coperto dal pannetto classico delle donne lucane, infilzata su di una grossa patata trafitta da 7 penne di gallina : queste rappresentavano le 7 settimane che mancavano alla Pasqua. La “Quaraisima Scianghitorta” , maschera carnevalesca paesana, rappresentava la moglie di Carnevale ,beone e sfaticato, ma in realtà era la rappresentazione della popolana del sud, stanca di fatica e triste, più schiava di casa che padrona. Nella farsa di Carnevale , dopo le bevute e i bagordi dei tre giorni precedenti, Quaresima aspettava il marito a notte fonda, davanti alla casa degli amici per riportarlo a casa barcollante e ubriaco.
I passanti chiedevano :

“Quaraisima Scianghitorta
chi ci fai nanta a sa porta?”

E Quaraisima , con un tono sprezzante, per non screditare il marito (Carnevale)
rispondeva:

“Qua ci mangiu e ci vivu
e ci sungu u matutinu…”

Il convito di San Giuseppe
La festa di S. Giuseppe a Rotonda nel passato era la festa più semplice, umile e modesta, senza processione, senza botti, senza banda musicale. Solo un grande falò (fatto di tralci di vite legati insieme chiamati “fascine”, che gli agricoltori toglievano dai vigneti) , la sera della vigilia nelle contrade Fratta e P. Incoronata. La vera festa consisteva nel convito di S. Giuseppe” , una festicciola semplice, senza clamore, modesta come la figura di S. Giuseppe , un santo simpatico più di tanti altri santi colti e nobili. Le massaie della contrada offrivano a tavola i deliziosi e sottili “tagliolini”, tagghiụlinë, uova sode e salame con pane casereccio. Negli anni la tradizione religiosa è continuata per volontà della cooperativa agricola “Valle Mercure”, oggi non più esistente. La tradizione dei piatti tipici viene, però, tenuta in vita dalle casalinghe locali. Anche il tradizionale falò viene riproposto non solo nelle campagne ma anche nel paese, in località “coste”. Il convito di S. Giuseppe affonda le sue radici nell’antica devozione per questo santo umile e generoso che, povero qual era, apriva la sua casa ai più bisognosi di lui e ai pellegrini stanchi che , di passaggio dinanzi alla sua porta, erano invitati a rifocillarsi. Questa devozione è di origini calabresi. E’ stata importata dalla vicina Mormanno la prima volta nella frazione di Santoianni , a cavallo tra la Basilicata e la Calabria . In seguito , ha messo radici nelle frazioni di P. Incoronata e Fratta, all’insegna di quel senso di antica ospitalità, amore fraterno, semplicità e amicizia che si respirava nel passato in un ambiente contadino in cui era naturale aiutarsi vicendevolmente.

La sagra delle uova I ragazzi , muniti di panieri, nella settimana santa, si recavano nelle campagne a chiedere , di porta in porta, le uova per la Pasqua. Era la sagra delle uova !!!
Servivano per fare la grande frittata con la salsiccia la mattina del Sabato Santo, dopo lo scampanio festoso delle campane . Con esse si faceva anche il buccellato, “cucciddrato” nel dialetto rotondese, tipico dolce pasquale fatto di farina, uova,zucchero,sugna,lievito e limone. Le bambine aspettavano la famosa “cuzzola”, bambola di pasta con un grande uovo in bocca e con i riccioli sulla fronte. Si fasciava la cuzzola come fosse una bambina , le si copriva la testa con una cuffietta da neonati , la si avvolgeva nello scialle e si giocava a fare la mamma. I maschietti rotondesi ,invece, erano ansiosi di costruirsi ,nei giorni di Pasqua, “a zirra”, una specie di “traccola” in piccolo, un rudimentale strumento di legno che, tenuto per il manico e girato velocemente, emetteva un suono stridulo e ripetitivo per i vicoli del paese. Il suono della “zirra” e della “traccola”, il mattutino, il
mezzogiorno ed il vespero, sostituiva il suono delle campane durante il Venerdì Santo ed era segno di lutto per la morte di Gesù. Fonti orali : Enzo Fittipaldi